Debutta a Stoccolma “Figure a Sea”: intervista a Paolo Mangiola

Debutta la coproduzione con Cullberg Ballet: intervista a Paolo Mangiola
Interprete di “Figure a Sea”, Paolo ci racconta la sua esperienza a Stoccolma

intervista-paolo-mangiolaIl Balletto di Roma partecipa ad una collaborazione internazionale guidata dalla compagnia svedese Cullberg Ballet (direttore artistico Gabriel Smeets) che si realizza in “Figure a Sea”, coproduzione che coinvolge 21 danzatori sotto la direzione della coreografa Deborah Hay e dell’autrice musicale Laurie Anderson, in prima mondiale il 24 settembre a Stoccolma. Tra gli interpreti anche il coreografo associato e docente del Balletto di Roma Paolo Mangiola che abbiamo raggiunto durante il periodo di prove a ridosso del debutto per farci raccontare il lavoro che stanno svolgendo gli interpreti. Abbiamo così scoperto un’innovativa “democrazia del palcoscenico” che pone al centro non un obiettivo da raggiungere ma il percorso dell’artista fin dal primo giorno di lavoro.

1. “Figure a Sea”, a cosa rimanda questo titolo?
Il lavoro non ha nulla di narrativo, non racconta una storia né rimanda a una drammaturgia. In realtà cerca di immaginare le possibilità che ci sono all’interno di un gruppo di interagire tra persone: il presupposto è che ci siano tante possibilità quante ne esistono in un mare. Queste possibilità sono legate alle decisioni che si prendono, alle relazioni, alla consapevolezza che c’è in determinate scelte. È un lavoro astratto ma anche incredibilmente concreto.

2. Come è stato passare da coreografo a interprete?
Non mi esibisco da circa due anni e mezzo, dopo una lunga carriera, ed è stata una bella sorpresa. Ero preparato fisicamente, certo, ma ci ho messo un paio di settimane ad entrare in un meccanismo in cui come interprete non sei uno strumento alla mercé del coreografo.

3. Raccontaci allora cosa vi ha chiesto la coreografa Deborah Hay…
Quello che Deborah chiede è una collaborazione coreografica. Gli interpreti che sono all’interno del progetto non sono solo ballerini ma sono anche coreografi, poiché tutto quello che si vede in scena è frutto di decisioni prese dagli interpreti all’interno di una partitura coreografica ben precisa. È la prima volta che lavoro così, ne avevo sentito parlare, ma non me l’aspettavo così. C’è bisogno di tanto coraggio: spesso come danzatore in scena ti proteggi dietro a dei filtri, come la tecnica o una frase coreografica imposta da un coreografo. Deborah invece chiede di andare oltre: non c’è più una frase imposta, ma c’è la pratica che utilizzi all’interno della performance, creata in base alle domande (impossibili!) che lei ti pone. Il tuo ruolo è mantenere all’erta la consapevolezza sulle domande che lei ti ha posto e, in questo modo, la partitura coreografica resta viva e coerente.

4. Come si combinano la partitura coreografica data e le domande poste?
Non c’è una partitura-alibi, Deborah non ci ha mai mostrato un movimento, quello che facciamo con il corpo è frutto di domande poste a un corpo visto come una formazione di milioni di cellule. Un cellular body, non un corpo fisico. La domanda, ad esempio, è: che cosa succede se il mio corpo, che è formato da milioni di cellule, risponde semplicemente a quello che vedo? E in che modo queste mie percezioni si trasformano in movimento?
È un lavoro molto intenso…è la prima volta che lavoro in un modo così radicale, mentre Deborah da sempre fa questo percorso. È incredibile il modo in cui riesce ad avere una cornice solida e allo stesso tempo lasciare libertà agli interpreti per decidere e partecipare. È un po’ quello che succede nella società…ed è questa la cosa interessante: estrapolare questo tipo di modalità e capire come trasportarla nella realtà.

5. C’è un forte legame con la società reale dunque?
Sì, ad esempio il fatto di partecipare, di essere partecipi a un dibattito o democrazia. Deborah lascia spazio, e questo è importante, soprattutto in questo momento: si parla tanto di libertà e di spazio all’interno della coreografia, anche dello spazio che si dà al pubblico di entrare e uscire dalla coreografia. Lei fa questo.
In più si pensa spesso alla danza come un trasferimento di tecnica ed emozioni da coreografo a interprete, in una scala gerarchica che vede il coreografo al top e poi con i ballerini che seguono ciò che il coreografo vuole. Deborah ha ribaltato questo schema: in Figure a Sea ogni interprete scardina questa gerarchia.

6. Qual è invece il contributo di Laurie Anderson, musicista e artista?
Laurie ha composto le musiche, ma ha lavorato spesso anche con il silenzio. So che quando Deborah chiese a Laurie di creare la musica chiese il silenzio. E il risultato è stupendo, una partitura in cui gli interventi musicali non prendono mai il sopravvento, ma interagiscono con altri elementi: le luci, il set, la coreografia, i danzatori. Sono elementi che collaborano democraticamente, una serie di sinergie che lavorano insieme fino alla fine.

7. Parlaci del tuo lavoro come coreografo…cosa ti porterai a casa da quest’esperienza al Cullberg?
Con questa esperienza sto riconsiderando tutto ciò che credevo fosse un elemento fondante della mia pratica coreografica: ad esempio, la necessità di dover dare a tutti i costi ai danzatori una frase coreografica, piuttosto che dare al danzatore gli strumenti per lavorare all’interno di una cornice. Certo, è una modalità che dipende tanto dal tipo di pedagogia che viene utilizzata in molte parti del mondo nella danza, in cui non chiedi, ma impari. Di sicuro mi porterò questa sfida: come posso dare agli interpreti gli strumenti senza obbligarli con determinate scelte mie? Si tratta di utilizzare gli altri come risorsa!
In più, Deborah lavora tantissimo col linguaggio. Appena arrivati ci disse: entro la settimana conoscerete tutta la coreografia, e ci ha stupiti perché normalmente non si lavora con questi tempi, la coreografia si sviluppa pian piano! E invece per necessità artistica lei scrive già tutto all’inizio: entri in sala e trovi già il timing preciso con ciò che avverrà in quel preciso momento. Attenzione, non ci sono scritti i passi però: il linguaggio che utilizza dà spazio al danzatore per interpretare, senza negare la sua natura di artista.

8. Prossimi progetti dopo il debutto?
Una prossima creazione con il Balletto di Roma, con cui abbiamo già iniziato le prime settimane di ricerca, e che debutterà nei primi mesi del 2016. È un lavoro tutto al femminile, con un cast di 4 danzatrici, parte di una serata che esplorerà il concetto di genere come identità.

Ma nel frattempo, appuntamento il 24 settembre con “Figure a sea” per rimettere in discussione tutti i più comuni concetti di collaborazione e coreografia, e per “Immaginare un mare” di possibilità.

Nell’immagine, Paolo Mangiola con la coreografa Deborah Hay durante le prove di “Figure a Sea” al Cullberg Ballet di Stoccolma.

Intervista a cura di Greta Pieropan
Pubblicato il 21/9/2015