Giselle, una “macchina teatrale perfetta”

Perché Giselle è stato definito il balletto perfetto? E quali sfide pongono le ricostruzioni e le nuove versioni di capolavori della storia del balletto come Giselle? Su queste e altre domande riflette Francesca Magnini, studiosa di danza contemporanea e autrice della monografia su Emio Greco e Pieter Scholten “The multiplicity of Dance”, che ci porta verso il completamento del nostro percorso su Giselle…

Reconstructing dance involves both a reconstruction of its object
and a construction of dance as a discipline

(Alessandra Lopez y Royo)

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Quello della ricostruzione di lavori di danza è un tema scottante, che ha nutrito a lungo le preoccupazioni di danzatori e coreografi di diversa provenienza e formazione, soprattutto in Occidente – nonché le ansie di comprensione e classificazione da parte di studiosi, critici e accademici – fino a innervarsi nella contemporaneità, assorbendo per osmosi energie dal passato, ma anche spinte e controspinte destabilizzanti dal tempo presente.

Re-creation, Re-invention, Re-staging, Re-vision, Re-enactment, Revival, Re-constitution: sono solo alcuni dei termini utilizzati per definire l’operazione complessa di “ri-presa in carico” di un patrimonio del passato con cui spesso è difficile mettersi in relazione. Oggi artisti e compagnie non ricostruiscono più opere di danza per perpetuare un regime d’immutabilità o per rincorrere esigenze di stabilità nei confronti di un repertorio già visitato e pertanto ritenuto indiscutibile, bensì per alterare il valore delle norme imposte dal passato e per disorientarne l’efficacia alla luce del presente; una propulsione irrefrenabile alla metamorfosi anti-narrativa del corpo in movimento che, sempre a stretto contatto con il pensiero, a sua volta rimanda all’idea di “opera che danza”, che respira senza mai spirare, senza perdere peculiarità archetipiche eppure vacillando pericolosamente in termini d’identità. L’atto stesso di ricostruzione si è dimostrato nel tempo un lavoro necessario per suggerire alle generazioni di oggi come fare esperienza dei frutti del passato, assimilare e digerire eredità estetiche di altri per farle proprie o al contrario per distanziarsene; ricostruzione, cioè, come atto creativo di auto-scoperta.

Perché ancora Giselle? Si chiedeva già nel 2007 Vittoria Ottolenghi, che nel raccontare di quest’opera l’ha definita “un balletto perfetto (…), una macchina teatrale perfetta che ha sempre funzionato fin dal primo giorno” (Perché ancora Giselle? Dialogo sul balletto perfetto, Editrice Compositori, Bologna 2007). Figlia di genitori impazienti – il libretto fu scritto in fretta e furia da Théophile Gautier e Vernoy de Saint-Georges, così come la musica composta in pochi giorni da Adolphe Adam – Giselle, coreograficamente parlando, fu realizzata a quattro mani: esempio rarissimo di collaborazione ben riuscita tra due autori, Jules Perrot e Jean Coralli, rispettivamente impegnati nella costruzione dei passi della Grisi e delle scene d’insieme ovvero l’impalcatura complessiva del balletto. Mani che nel corso del tempo si sono strette con altre mani, moltiplicate, abbracciate, contaminate, superando ogni presunto limite tecnico e stilistico; e se le immortali musiche, così come la commovente trama del libretto, continuano ancora oggi ad alimentare l’ispirazione di molti è probabilmente perché – come scritto da Concetta Lo Iacono in un programma di sala dell’Opera di Roma del 1994 – una “cura della risonanza spirituale del gesto, come pure della sua aderenza alla realtà (…) al di là di ogni riferimento sociale, spesso diluito o episodico” ha contribuito alla costruzione una struttura molto solida e organica degli atti. Allegria-spensieratezza, follia per la delusione amorosa, passaggio a un mondo irreale in cui trovare salvezza: tutti elementi così ben articolati che – conferma Elena Cervellati (La danza in scena. Storia di un’arte dal Medioevo a oggi, Mondadori, Milano 2009) – “rendono Giselle ancora oggi comprensibile e godibile”, ma soprattutto attuale per le vibrazioni che emette l’immagine della donna, la sua femminilità assoluta. Una fanciulla che muore di dolore dopo aver scoperto il tradimento da parte del suo innamorato, infatti, è un soggetto dal fortissimo richiamo emotivo, simbolo di un tormento che attraversa la storia e le culture perché non ha epoca, non ha età e quindi non si cristallizza in un formula statica. Ci riguarda tutti da vicino, ci mette allo specchio.

Negli anni quaranta dell’Ottocento, quando Giselle nacque, non poteva esistere niente di più contemporaneo. Si è capito fin da subito che questo balletto pieno di passione, poesia e raffinatezza sarebbe stato un caposaldo nella storia della danza. Non è servito aspettare tanto per rendersi conto che una donna che difende con le unghie e con i denti la purezza del suo sorriso e del suo animo romantico danzando per difendersi dal grigiore delle logiche di potere è un tema senza tempo. Non a caso oggi siamo ancora qui a parlare di questa “macchina perfetta” che, proprio quando nega contenuti e forme originarie, rivela al massimo la sua natura rivoluzionaria.

Più che del tentativo di preservare una tradizione di opere quindi, sembra opportuno riflettere sulla volontà da parte dei coreografi-autori contemporanei di rifiutare la stabilità per legittimare dei tradimenti, inventare ex-novo una tradizione, una poetica artistica, anche a costo di rischiare spingendosi oltre e accettando qualche diffidenza da parte del pubblico. Difendiamoci, quindi, da ogni pregiudizio che cerchi di associare la ricostruzione con una pratica arida o artisticamente meno rilevante rispetto a una cosiddetta versione “originale”: riscrivere la danza oggi non significa soltanto ricreare, o nel peggiore dei casi copiare, un movimento nel modo più veritiero possibile, ma è anzitutto un compito critico e analitico. Di conseguenza quello che fino a poco fa poteva essere considerato un “ri-fare” diventa solo ed esclusivamente un “fare”, da comprendere e accettare come tale.