ArTalks, 18.03.2015 – Lago dei Cigni

Giù dalle stelle

Al Teatro Verdi di Pisa il Balletto di Roma reinterpreta Il Lago dei Cigni. E il dramma si fa cosmico.

Scendiamo. Suvvia, è il destino, è la disgrazia che affligge la razza. Non tanto la certezza della discesa inevitabile, quello no. Stiamo nella vita come alla catena che accompagna l’ancora. Ma qualcuno ci ha assemblati con la brama di salire e questo sì, questo ha del catastrofico. Perché una cosa è avere su di sé un corpo piombato che inevitabilmente andrà a baciare i fondali, altra è sapere che in quel corpo vi è altro, vi è un qualcosa che disperatamente lotta per non affondare. E affondare gli tocca. Qui sta la disgrazia: nonostante tutto, scendiamo.
Giovedì 12 marzo, Teatro Verdi, Pisa. Sono le 21.00 in punto. Per la regia di Fabrizio Monteverde e con la musica di Čajkovskij, sale sul palco il Balletto di Roma. Il Lago dei Cigni ovvero il Canto – nasce dal connubio tra l’ormai leggendario balletto e un’opera di diverso genere, anch’essa di produzione russa. Stiamo parlando del Canto del Cigno, atto unico di Anton Čechov che narra il declino di Vasilij Vasil’ič Svetlovidov, vecchio attore in procinto di morire.
Ora, Monteverde porta in scena una vicenda analoga quando ci mette davanti i suoi affranti ballerini, protagonisti come Svetlovidov di una ribalta in sfacelo. Non più quelli di una volta e l’ombra di un ricordo, il più glorioso, a soverchiare i loro goffi tentativi di replica. Mentre i panni sparpagliati ovunque diventano il confine mutevole di due realtà in conflitto: quella vera, amara, e l’ideale – che non si può rinnovare perché, ahinoi, tempo non è più.
Ecco, quindi, una ridda di anziani che muove guerra contro i propri corpi, impossibilitata a rassegnarsi al declino – dopo un tale passato. In loro risiede la caparbietà di chi della gioventù ha fatto il guanto della sfida e non si capacita di perderla. Ma siamo uomini, e questo è grave. Siamo uomini, e ci è concessa al contempo l’ebbrezza illusoria di unarabesque. Codesta è crudeltà, no? E vederli caracollare, questi danzatori, per prendere slancio, aprirsi al vento, arrestarsi e alleviare un crampo, ripartire, ricadere con la schiena a pezzi: tutto questo è litania spietata.
Loro ballano, ci provano. Odette – o meglio, colei che si reinventa Odette in questa finzione dentro la finzione – è ormai anziana, con i capelli rattenuti in una crocchia severa. Siegfried è colui che ancora la corteggia, con i suoi capelli vivacemente rossi che farebbero pensare che si tratti dell’unico leggermente più giovane. Rothbart, che malgrado abbia la medesima età degli altri pare immune al declino fisico, s’impone sul gruppo alla maniera di un Drosselmeyer nero. Potrebbe persino figurare come il legittimo compagno di Odette. L’accidentata interpretazione prosegue: a tratti eseguita con commovente attenzione, a tratti puntando a chiuderla al più presto: molto bella, a tal proposito, la riproduzione del passo a quattro dei cignetti – che contrappone, sul fondale, l’algida perfezione delle danzatrici che furono con il presente agito sul palco, scemato in una pantomima grottesca. Ivi risiede l’originale bellezza di questo Lago dei Cigni: nel contrasto. Là la proiezione un poco sbiadita, qui la danza scomposta, la danza sforzata che si protrae oltre il dovuto – la composizione sfuma e loro ancora lì, a pestare i loro piedi aridi sul parquet del palcoscenico.
E poi, d’un tratto, ecco che la fine è prossima e il fondale rovina al suolo. Alle loro spalle, l’insegna ammiccante di un albergo e la stanza circoscritta. Tradimento svelato? Pensi ciascuno la sua. Cambiano storia, personaggi, relazioni. Non muta il susseguirsi degli eventi, che riprende per quanto può quello originale. Certo, elementi che non coincidono ve ne sono. Ad esempio l’entrata di Odile, perfetta ma meno aderente all’erotismo sfrenato del personaggio principale – forse di proposito, forse no. Certo è che il Balletto di Roma, che dal 1960 calca le nostre scene, ha saputo scuotere a fondo l’opera Čajkovskijana – insieme emblematico per la danza, ma anche pesante da sostenere.
E sorge in alcuni la domanda: perché proprio Il Lago dei Cigni? Perché no? Perché non impossessarsi, di tutte le opere, proprio della più trita? Perché più a fondo si percepisca la disillusione dei personaggi, più insormontabile il confronto, più impossibile ancora l’unico, isterico desiderio che tutti noi potremmo condividere: l’immortalità.
Ma è tardi, signori, troppo tardi. Non è più tempo per l’arte, il lago è prosciugato. Giunta è l’ora di rassegnarsi, l’ora “di provare la parte del cadavere” (Vasilij Vasil’ič Svetlovidov).

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Sharon Tofanelli – 18 marzo 2015